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Gli aziendalisti potevano farsi avanti

di Pier Luigi Fabrizi

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16 giugno 2009

La crisi finanziaria globale ha portato, tra le altre cose, a mettere sotto processo gli "economisti". I capi di accusa sono stati numerosi e il processo è stato istruito in modo rigoroso fino ad arrivare a una sentenza più o meno giusta, ma comunque di condanna. Forse però, come spesso accade anche nelle indagini di polizia giudiziaria, l'accusa ha commesso l'errore di seguire un'unica pista, immaginando che, a livello di uomini di studio, gli imputati non potessero essere diversi dagli stessi "economisti". Un errore grossolano se si considera che la crisi ha avuto una chiara matrice finanziaria e, soprattutto, se si tiene conto del fatto che gli "economisti" non sono rappresentativi dell'intero universo degli uomini di studio che si occupano di accadimenti economici e finanziari.

A comporre questo universo, infatti, concorrono pure gli "aziendalisti", cioè gli studiosi di economia d'azienda e di management. Anche gli "aziendalisti" indagano gli accadimenti economici e finanziari, ma, diversamente dagli "economisti" che seguono un approccio sistemico, essi seguono un approccio istituzionale focalizzando la loro attenzione sulle imprese e sui mercati. Una differenza sostanziale che ha radici storiche profonde e che, nonostante l'attenuazione dei confini tra le varie discipline determinata dalla giusta contaminazione delle conoscenze, rimane universale e di assoluta attualità. Essa, infatti, riflette l'indiscutibile presenza di due modi di studiare l'economia e la finanza ai quali va riconosciuta pari dignità, ma che risultano profondamente diversi in quanto fondati l'uno (quello aziendalistico) sull'osservazione della realtà e sulla speculazione intellettuale, l'altro (quello economico) sulla modellistica quantitativa e sull'astrazione teorica.

Se così è, sorge spontanea una domanda: perché il processo è stato istruito senza chiamare in causa gli "aziendalisti"? La risposta non è agevole in quanto l'omissione appare difficile da comprendere alla luce del ruolo centrale svolto dagli intermediari e dai mercati finanziari nella genesi e nello sviluppo della crisi. Non volendo immaginare che la dimenticanza sia dipesa da ragioni di scarsa considerazione, un'ipotesi plausibile è che gli "aziendalisti" siano stati dimenticati perché la loro identità si è affievolita e a ciò si è accompagnata una certa noncuranza nei confronti dei principi da essi formulati, nel caso di specie dei principi riguardanti la sana e prudente gestione delle banche e il corretto e ordinato funzionamento dei mercati mobiliari. Molti di questi principi, però, erano e sono giusti e il fatto che siano caduti nel dimenticatoio ha contribuito a favorire la nascita e la propagazione della crisi.

Una valutazione del merito del credito ispirata ai tradizionali criteri della capacità di reddito dei soggetti richiedenti e della congruità del valore patrimoniale degli immobili dati in garanzia avrebbe certamente potuto impedire l'effettuazione delle operazioni di finanziamento all'origine del circolo vizioso che ha innescato la crisi. Allo stesso modo, una puntuale osservanza del vincolo dell'equilibrio monetario e un'attenta gestione del matching delle scadenze degli attivi e dei passivi avrebbe sicuramente frenato lo sviluppo di politiche di funding centrate su strumenti finanziari con scadenza molto più breve di quella dei mutui che andavano a finanziare. E per di più realizzate senza una puntuale valutazione dei rischi connessi alle condizioni di costo e di rinnovo una volta che la situazione di ampia liquidità fosse venuta meno.

Infine, una forte attenzione all'indispensabilità della diffusione e dell'utilizzo dell'informazione finanziaria, in quanto trave portante del meccanismo di trasferimento dei rischi insito nelle operazioni di cartolarizzazione, avrebbe dovuto indurre tutti i soggetti interessati a usare prudenza e rigore nella costruzione delle operazioni della specie collegate allo smobilizzo dei mutui.

I riferimenti appena fatti rappresentano altrettanto esempi di principi che la teoria aziendalistica ha formulato da tempo, certamente in epoca non sospetta in quanto la proposizione della gran parte di essi risale ad anni più o meno lontani del secolo scorso. Se così è, il mancato coinvolgimento degli "aziendalisti" nel processo appare ancora meno comprensibile in quanto avrebbe potuto cambiare l'andamento del dibattimento e, al limite, portare a una sentenza parzialmente assolutoria, salvaguardando in questo modo il buon nome di tutta l'accademia. Sotto questo profilo, comunque, anche gli "aziendalisti" hanno le loro responsabilità e queste riguardano il non essersi fatti sentire abbastanza, l'aver accettato una specie di omologazione agli "economisti", l'essersi dimenticati delle loro origini e delle loro tradizioni.

Al di là di queste considerazioni che hanno un chiaro sapore di disputa accademica, l'insegnamento per tutti e per il futuro che si può ricavare dai fatti esposti è quello contenuto in una massima di Confucio con la quale un grande aziendalista italiano, il professor Tancredi Bianchi, apriva un suo noto libro edito nel 1967. Tale massima recitava: «Chi, riandando al vecchio, impara il nuovo, quello può considerarsi maestro».

L'autore insegna all'Università Bocconi

16 giugno 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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